Quando avevo vent’anni ero convinta che sarei diventata una famosa inviata televisiva in Asia. Ho cominciato bene, trascorrendo un anno a seguire gli sconvolgimenti politici nelle Filippine. Poi ho vinto una borsa di studio per un master in Studi sul Sud-est asiatico alla Columbia University di New York. Il primo giorno, esattamente il primo giorno di corso, ho incontrato il mio futuro marito: un italiano.
Se mentre fissavo rapita i suoi occhi blu, un angelo mi avesse sussurrato che sarei diventata una mamma italiana, avrei cucinato pasta, fatto il brodo vegetale e diventata un’esperta di pomodori, forse sarei scappata via. Ma non c’era nessun angelo e tre anni dopo, mi sono ritrovata sposata, in un appartamento con una cucina minuscola, a Roma.
Mio marito era nel piccolo soggiorno a guardare la televisione e io, l’impavida reporter televisiva che aveva seguito i ribelli comunisti sulle sperdute montagne delle Filippine, tentavo di cucinare spaghetti al pomodoro.
Ho preso una manciata di spaghetti, li ho spezzati in due e gettati nell’acqua bollente. “Cos’era quel rumore?” ha chiesto mio marito dall’altra stanza.
“Oh, niente… – ho spezzato gli spaghetti per farli entrare nella pentola.”
Mio marito è piombato in cucina come una furia: “COSA??? HAI SPEZZATO GLI SPAGHETTI?? NO, NO, NO, NO, GLI SPAGHETT NON SI SPEZZANO MAI, MAI, MAI!”
In quel momento ho pensato che preferivo i ribelli comunisti.
Mio marito poi ha cominciato a portarmi alle cene dei suoi amici per farmeli conoscere. Con il mio italiano stentato, cercavo di fare conversazione e da buona americana, iniziavo sempre col chiedere: “Allora, cosa fai nella vita?” Alla fine di una di queste serata, mio marito mi ha detto che non dovevo chiedere alle persone che lavoro facevano, perché in Italia era considerato scortese.
“E di cosa dovrei parlare? Nessuno mi chiede mai cosa faccio!” ho risposto piagnucolando. “Amore, in Itala puoi sempre parlare di cibo.”
Caspita, ho pensato. Preferirei trovarmi sotto il fuoco incrociato nelle strade di Manila durante un colpo di Stato piuttosto che passare il resto dei miei giorni a parlare di pasta e pomodori. Ma mio marito aveva ragione. Gli italiani possono passare ore a parlare di cibo, purché si tratti di cibo italiano.
Col tempo sono riuscita a rimpiazzare la crisi nelle Filippine con il Vaticano e la politica italiana, e – con grande sforzo – ho cominciato a ciarlare di pasta e pomodori.
Poi è nato mio figlio, il primo di tre e mia suocera mi ha insegnato a fare il brodo vegetale. Ogni giorno, dovevo far bollire per un’ora carote, cavolo, lattuga, spinaci, fagiolini e patate. Poi davo a mio figlio quel brodo vegetale con dentro la pastina, un po’ d’olio d’oliva e parmigiano. Un incubo.
Infine un giorno sono andata dal nostro pediatra, l’affascinante dottor Francesco Guidotti, che ha prescritto un lungo e complicato menu per mio figlio. Ho deciso di reagire. “Dottor Guidotti, io odio fare il brodo vegetale. Mi sta rovinando la vita. Non avete mai sentito parlare di quei vasetti di omogeneizzati che si comprano al supermercato? Per favore, mi dica che non fanno male e che posso darli a mio figlio.” Il dottor Guidotti ha sospirato e guardandomi serio: “Come sono i pomodori nel suo Paese?” “Buoni…” ho risposto debolmente. “No, non sono buoni – sono rossi, rotondi, perfetti e senza alcun sapore. Di certo non può paragonarli agli squisiti pomodori italiani.”
“Capisco – ho ribattuto – ma se voglio che mio figlio acquisisca un palato raffinato, quella sbobba verde propinata ogni giorno per i primi diciotto mesi non gli farà certo capire la differenza tra il cibo buono e quello cattivo” “Ascolti – ha detto lui sorridendo – voi americani fate tante cose meglio degli italiani, ma deve ammettere che il cibo italiano è il migliore del mondo. Non deve discutere le mie prescrizioni alimentari.” Finalmente ho capito: era una battaglia persa.
Non avrei mai immaginato di sposare un italiano. Quando ho conosciuto mio marito alla Columbia University, era alto, biondo, con gli occhi blu e in procinto di iniziare un PhD in Economia. Fummo stati invitati a una festa per gli studenti che avevano ricevuto incarichi accademici noti come la Zuckerman Fellowship. Lui fece del suo meglio per affascinarmi, ma io non rimasi molto colpita.
Il giorno seguente, ero in ritardo per la registrazione nell’edificio degli Affari Internazionali. Attraversai di corsa il campus e mi stavo avviando sulla lunga gradinata quando vidi Gustavo. “Oh, Treeeeesha”, esclamò. (Gli italiani hanno difficoltà con la ‘i’ del mio nome, la pronunciano come nella parola ‘tree’, così sembra sempre che io mi chiami ‘albero’.)
Comunque lui scese le scale, mi prese la mano e la baciò. Ecco fatto. Mi aveva conquistata. Deliziata fino alla svenevolezza e completamente affascinata. Non credo di aver più visto Gustavo baciare la mano di qualcuno.
Nei giorni e nelle settimane che seguirono flirtammo parecchio, non ci prendevamo troppo sul serio, ma quel gioco ci piaceva. Il momento decisivo giunse a una festa di metà autunno organizzata dalla Columbia Law School nella biblioteca del Low Memorial. Gustavo sapeva che ero cotta a puntino e chiese a tutte le mie amiche di ballare lasciandomi lì ad aspettare per ore, o almeno così sembrava a me. Ero esasperata.
Alla fine decisi di fare a modo mio. Andai sulla pista e lo presi per un braccio mentre ballava, lo trascinai fuori, dietro una colonna, e sotto il cielo stellato di New York, gli diedi tre schiaffi. Pensavo che Sofia Loren avrebbe fatto lo stesso e di sicuro, gran parte delle donne italiane si sarebbe comportata così. Infatti funzionò e dopo di allora, fu tutto mio. Inutile dire che non ho mai incontrato una donna italiana che avesse schiaffeggiato un uomo.
Non vale la pena entrare nei dettagli dell’organizzazione di un matrimonio fra un cattolico di Roma e una protestante di Boston. Mi ritrovai a poche settimane dal matrimonio a una festa in mio onore. I miei amici mi regalarono libri di cucina e camicie da notte attillate ripetendomi: “Agli uomini italiani piace vedere la loro donna in cucina, incinta e scalza.”
Pochi giorni prima del matrimonio, ero seduta davanti a prete cattolico irlandese che mi erudiva eloquentemente sui misteri del cattolicesimo. Mio marito sostiene che prima di uscire, firmai un foglio promettendo di educare i miei figli alla religione cattolica. Non ho alcun ricordo di quella firma, ma tutto è possibile, quelle ultime settimane erano state caotiche.
Il nostro matrimonio avrebbe dovuto svolgersi in una di quelle splendide giornate autunnali del New England. Invece no, pioveva a dirotto, una pioggia impietosa e incessante. Occorsero tre persone armate di ombrello per farmi varcare la soglia della chiesa col mio ingombrante abito da sposa. Al ricevimento, tutti gli ospiti italiani mi parlarono della famosa espressione: ‘Sposa bagnata, sposa fortunata’.
Gabriella, la zia di mio marito venuta a Boston per il matrimonio, mi informò anche di un altro modo di dire italiano: ‘Mogli e buoi dei paesi tuoi’. All’epoca non capii, ma col tempo, il concetto mi è diventato più che chiaro.
Quando mi sono sposata, non sapevo quasi niente dell’Italia. Ero stata a Firenze e a Venezia durante un semestre di studio in Francia. Non parlavo la lingua e conoscevo poco la cultura e la storia. Avevo trascorso gli anni dopo la laurea a inseguire le mie ambizioni giornalistiche. Oltre allo stimolante anno nelle Filippine, avevo lavorato un anno per la ABC News a New York e due anni per la CNN a Washington. Due lavori piuttosto noiosi, fatti da dietro una scrivania, che però mi tennero informata sugli eventi internazionali e mi introdussero nel mondo delle news televisive, che mi appassionò per l’immediatezza e il potere che esercitava.
Lavorai anche per un’affiliata della NBC a Boston durante la campagna presidenziale del 1988, quando l’allora governatore del Massachusetts Michael Dukakis era candidato alla presidenza, e lì sviluppai la mia passione per la politica americana. Infine passai una bella estate come reporter televisiva a Portland, nel Maine, seguendo storie di pescatori di aragoste e sagre locali. Lì imparai a stare davanti alla telecamera e a conoscere le gioie del lavoro sul campo.
Ma niente di tutto questo era sufficiente per la full immersion nella cultura italiana e nella copertura degli eventi in Vaticano. Non sapevo come fare il brodo vegetale e non ero sicura se ci si dovesse rivolgere a un cardinale con ‘sua Eminenza’ o ‘sua Eccellenza’. Non sapevo distinguere Canaletto dal Caravaggio, né le penne dai rigatoni, ma presto avrei imparato.